Vanni Fucci

Nel corso di viaggio di Dante attraverso l’inferno, più precisamente nella settima bolgia (quella dei ladri), il sommo poeta chiama in causa un peccatore particolare, a noi pistoiesi particolarmente vicino in quanto nostro compaesano, responsabile della dura invettiva che viene lanciata su Pistoia e su i suoi abitanti.

<< Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d’incenerarti sì che più non duri,

poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi? >>

(Inf. XXV, vv. 10-13)

Chi è costui che arreca a Pistoia l’infamia di uno dei più grandi poeti della nostra letteratura?

« “Io piovvi di Toscana,

poco tempo è, in questa gola fiera

Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana”. »

(Inf. XXIV, vv. 122-126)

Vanni Fucci fu un uomo d’indole violenta e rissosa (un “mulo”, come lo chiama Dante) figlio di Fuccio dé Lazzari e discendente di una nobile famiglia del territorio pistoiese. Questo personaggio fa parte dell’identità di Pistoia e ne alimenta una fama tenacemente malevola. L’episodio di cui si rese protagonista insieme a due suoi compagni, che gli ha meritato un posto tra i peccatori infernali, si colloca in quel momento storico in cui tramontava il “secolo d’oro” del comune di Pistoia e si delineavano i contrasti politici, esterni ed interni, che l’avrebbero portata alla rovina.

Il clamoroso furto avvenne, secondo la più credibile ricostruzione, nel 1293, forse nel periodo del carnevale, il che accrediterebbe l’ipotesi secondo la quale l’idea criminosa sarebbe nata da una “bisboccia” (una riunione di amici in cui si mangia e si beve in allegria) notturna e magari sotto l’influenza del vino. Potremmo chiamarlo “il furto dei tre Vanni” perché tre furono i responsabili, tutti con lo stesso nome: Vanni Fucci, Vanni della Monna e Vanni Mironne.

<<Perché allora>>  si potrebbe chiedere << il marchio dell’infamia grava ancora oggi solo sul primo?>>.

La risposta è semplice: perché Dante nel suo Inferno rammenta lui solo, probabilmente consapevole di alcuni suoi precedenti altrettanto negativi e soprattutto perché suo avversario politico.

Guelfo nero, partecipò alle lotte interne alla sua città, compiendo razzie e ripetuti saccheggi e nel 1292 fu al servizio di Firenze nella battaglia contro Pisa, occasione nella quale forse Dante lo conobbe.

Quanto al furto, questo rimane ancora oggi in parte celato nel mistero a causa dell’archivio che ne conserva i dettagli.

Il furto

La cronaca dell’accaduto è tratta da un testo trecentesco inserito in un codice che contiene preghiere e racconti di miracoli attribuiti alla Madonna delle Porrine, cioè alla Vergine, un tempo ritratta sul lato esterno della cattedrale (quello che a nord dà su Piazza del Duomo) cui era stato assegnato il merito di aver fatto cessare una pestilenza che comportava la comparsa sul corpo di orrendi bubboni chiamati appunto “porrine”.

In un documento a lei dedicato, con le narrazioni dei suoi miracoli, si trova un breve resoconto di un cittadino, Rampino di Ranuccio Foresi, implicato nelle indagini del furto sacrilego di Vanni Fucci. Il pover’uomo, innocente, fu catturato dalle autorità, brutalmente torturato (sotto le percosse confessò tutto quello che gli inquirenti volevano) e condannato a morte infamante: sarebbe stato trascinato, legato alla coda di un mulo, fino alla forca e qui impiccato.

Tuttavia, poco prima dell’esecuzione, il povero capro espiatorio Rampino, raccomandatosi alla Madonna delle Porrine ebbe la grazia. Uno dei veri colpevoli, Vanni della Monna, venne scoperto, arrestato e costretto a confessare il nome del principale responsabile (Vanni Fucci) e dell’altro complice. Il fatto rimase così sepolto negli archivi, registrato come evento miracoloso, e lo sarebbe rimasto per sempre se Dante non lo avesse preso a prototipo di gesto infamante per raffigurare il destino infernale dei ladri, fornendoci tuttavia solo una versione superficiale della vicenda.

Il furto, come si è pensato, ebbe forse finalità più politiche che venali. Nella sacrestia di San Iacopo (“d’i belli arredi”) insieme al  tesoro del santo erano conservati i libri comunali contenenti dati dei bandi, delle condanne, registri dei diritti e dei privilegi e gli elenchi delle cariche pubbliche. Logico pensare come un uomo disonesto come Vanni, acceso fautore della fazione sconfitta della città, potesse aver voluto avere fra le mani quei libri, magari per alterare o distruggere qualche documento, oppure per fare dispetto alla parte avversa, da tempo al comando di Pistoia.

In seguito al furto, Vanni Fucci si rifugiò in territorio fiorentino dove scrisse una lettera (secondo alcune versioni) per informare  Ranuccio Foresi, padre di Rampino, dell’innocenza del  figlio e offrirsi, se contattato e in cambio di compenso, di insegnarli come vivere: “insegnerebbeli campare il figliuolo”. Rimasto impunito durante la sua vita terrena, Vanni Fucci viene destinato ad una punizione eterna da Dante che lo colloca nella bolgia dei ladri,  assaltato dai serpenti (simbolo del furto e del peccato) e incenerito ripetutamente.

Nonostante le punizioni, Vanni continua a professare il suo peccato, bestemmiando ed inveendo contro i suoi avversari, presentando spregiudicatamente l’indole cattiva che da sempre gli viene riconosciuta.

Curiosità

  • Vanni Fucci è stato ritratto in moltissime opere d’arte di illustri artisti come Gustave Dorè e William Blake.
  • E’ tutt’oggi visitabile a Pistoia una torre chiamata “Torre di Vanni Fucci” perché situata nelle vicinanze del luogo dove un tempo si trovava l’abitazione della famiglia Lazzari.

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